giovedì 19 marzo 2015

“Poi ti mostrai le foto dei miei viaggi/ ti raccontai di un popolo lontano” - Da Todorov a Jovanotti

Pavese scriveva “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto riandarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c0è qualcosa di tuo, che quando non ci sei resta ad aspettati.” 
Ed io ho sempre pensato che fosse così, che la parte migliore del viaggio fosse il ritorno. (Sarà per questo che, quando - partivo, cercavo - sempre di trovare, innanzitutto, le ragioni del ritorno?) Ritornare a casa, ai propri affetti portandosi addosso le esperienze raccolte in un altro dove e in un altro quando. Ricordo perfettamente la sensazione di serenità di tutti i ritorni, quell’abbandonarsi esausti sulla poltrona all’ingresso, lasciando la valigia mezz’aperta quasi per far uscire da ogni maglietta, ogni souvenir, ogni cartina accartocciata la gioia e la stanchezza delle ore passate lontano. Ora tuttavia le prospettive sono mutate, ora che non sono più un Ulisse joyciano. Ora mi rendo conto che è vero quello che scrive Citati: compiamo sempre due viaggi, uno reale e uno fantastico. Io, forse, sono più portata per la progettazione del viaggio. Ed in me i due viaggi, quello sperato, sognato e aspettato e quello vissuto, si combattono sempre. Se si apre la mia agenda alla terza pagina c’è una cartina con le “time zones”, i fusi orari. Ogni paese, ogni città che vorrei raggiungere un adesivo a forma di cuore, ogni cuore un viaggio, ogni viaggio un sogno, ogni sogno miriadi di siti, riviste, guide consultati.
Spesso si viaggia senza pagare alcun biglietto, seduti alla propria scrivania, riempiendo pagine e pagine di luoghi geotaggati su Instagram, di accenni storici e artistici, di asterischi e note a piè pagina: la parte più bella consiste proprio nel riprendere in mano quei fogli profumati e ritoccare qua e là un viaggio che non faremo mai (o, semplicemente, non abbiamo fatto ancora).
Allo stesso tempo faccio esperienza del dolore di “non poter vivere contemporaneamente in due luoghi, quando e l’uno e l’altro vivono nel - mio - pensiero” e quindi mi dico: basta progettare, è ora di partire, così, senza pensarci troppo, avendo dolo cura di lasciare “i fuori a chi sappia badarci” ed attraversare lo spazio per eccitare il tempo.
Non bisogna mai essere un “visitatore frettoloso” però.
Essere turista per me non ha mai significato viaggiare.
Quando penso alla parola turista ho sempre una visione negli occhi: Venezia, Isola di San Giorgio, ore undici del mattino. Un’orda di giapponesi armati di reflex scende rumorosamente da un vaporetto per recarsi sul campanile della chiesa. 
La pace di un posto magico, quasi sacro, come San Giorgio danneggiata nel giro di un secondo. 
Perché, è vero, il turista sceglie le cose: gli oggetti a fotografare sono la sua predilezione. 
Io voglio essere un viaggiatore, voglio mostrare le foto dei miei viaggi, ma per raccontare di popoli lontani, come cantava Lorenzo Jovanotti, voglio raccontare di persone perché preferisco osservare uomini e non cammelli e collezionare chilometri: ogni chilometro non vale meno di un anno di vita.

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