martedì 31 marzo 2015

Gnammy - Ditta Trinchetti

Se siete a Roma non potete non passare da Trastevere perché:
- a Trastevere sembra che gli anni si siano fermati: da un momento all’altro un divo degli anni 50 potrebbe uscire da qualche trattoria!
- si respira profumo di tradizione e si possono divorare bucatini fino a scoppiare (evitate però i locali chiaramente turistici, quelli lasciateli ai Giappo)
- ogni dieci passi compariranno davanti ai vostri occhi auto d’epoca, specialmente Cinquecento rosse e gialle!

L’ultima volta che ci sono stata ho pranzato alla Ditta Trinchetti, scoperta grazie all’hashtag #trendandthecityguide su Instagram. Questa osteria-enoteca mi è piaciuta moltissimo: tra barattoli di latta delle conserve di pomodoro - che mi riportano indietro al profumo della passata che mia nonna Ada preparava, che puntualmente, sul finire dell’estate, invadeva la nostra casa al mare - usati come vasi, gomitoli di lana che cadono dal soffitto e piatti che uniscono antichi e nuovi sapori. E con le porzioni non scherzano: ho mangiato degli spaghetti cacio e pepe con zucchine e fiori di zucca che non finivano più (della serie #carboidratoviolento). Il menù è molto ricco, con piatti come arrosto di maiale con erbe e prugne, tortino di broccoli e patate (anche questo super buono!) e polpette di cavolo nero e ricotta.


Se siete in quella zona e preferite piatti un po’ più tradizionali o volete mangiare una bella pizza con mozzarella filante potete invece andare Aristocampo - è proprio di fianco alla Ditta Trinchetti.


[Per arrivare a Trastevere, se siete in centro, basta attraversare Ponte Sisto. Per raggiungere direttamente la Ditta Trinchetti forse può essere più comodo attraversare Ponte Garibaldi (quello che precede l’Isola Tiberina, per intenderci, e collega Lungotevere de Cenci a Lungotevere Anguillara Alberteschi) e la prima perpendicolare a Viale di Trastevere che incontrate è proprio Via della Lungaretta.]



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Ditta Trinchetti
Via della Lungaretta, 76 
Trastevere - Roma

giovedì 19 marzo 2015

“Poi ti mostrai le foto dei miei viaggi/ ti raccontai di un popolo lontano” - Da Todorov a Jovanotti

Pavese scriveva “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto riandarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c0è qualcosa di tuo, che quando non ci sei resta ad aspettati.” 
Ed io ho sempre pensato che fosse così, che la parte migliore del viaggio fosse il ritorno. (Sarà per questo che, quando - partivo, cercavo - sempre di trovare, innanzitutto, le ragioni del ritorno?) Ritornare a casa, ai propri affetti portandosi addosso le esperienze raccolte in un altro dove e in un altro quando. Ricordo perfettamente la sensazione di serenità di tutti i ritorni, quell’abbandonarsi esausti sulla poltrona all’ingresso, lasciando la valigia mezz’aperta quasi per far uscire da ogni maglietta, ogni souvenir, ogni cartina accartocciata la gioia e la stanchezza delle ore passate lontano. Ora tuttavia le prospettive sono mutate, ora che non sono più un Ulisse joyciano. Ora mi rendo conto che è vero quello che scrive Citati: compiamo sempre due viaggi, uno reale e uno fantastico. Io, forse, sono più portata per la progettazione del viaggio. Ed in me i due viaggi, quello sperato, sognato e aspettato e quello vissuto, si combattono sempre. Se si apre la mia agenda alla terza pagina c’è una cartina con le “time zones”, i fusi orari. Ogni paese, ogni città che vorrei raggiungere un adesivo a forma di cuore, ogni cuore un viaggio, ogni viaggio un sogno, ogni sogno miriadi di siti, riviste, guide consultati.
Spesso si viaggia senza pagare alcun biglietto, seduti alla propria scrivania, riempiendo pagine e pagine di luoghi geotaggati su Instagram, di accenni storici e artistici, di asterischi e note a piè pagina: la parte più bella consiste proprio nel riprendere in mano quei fogli profumati e ritoccare qua e là un viaggio che non faremo mai (o, semplicemente, non abbiamo fatto ancora).
Allo stesso tempo faccio esperienza del dolore di “non poter vivere contemporaneamente in due luoghi, quando e l’uno e l’altro vivono nel - mio - pensiero” e quindi mi dico: basta progettare, è ora di partire, così, senza pensarci troppo, avendo dolo cura di lasciare “i fuori a chi sappia badarci” ed attraversare lo spazio per eccitare il tempo.
Non bisogna mai essere un “visitatore frettoloso” però.
Essere turista per me non ha mai significato viaggiare.
Quando penso alla parola turista ho sempre una visione negli occhi: Venezia, Isola di San Giorgio, ore undici del mattino. Un’orda di giapponesi armati di reflex scende rumorosamente da un vaporetto per recarsi sul campanile della chiesa. 
La pace di un posto magico, quasi sacro, come San Giorgio danneggiata nel giro di un secondo. 
Perché, è vero, il turista sceglie le cose: gli oggetti a fotografare sono la sua predilezione. 
Io voglio essere un viaggiatore, voglio mostrare le foto dei miei viaggi, ma per raccontare di popoli lontani, come cantava Lorenzo Jovanotti, voglio raccontare di persone perché preferisco osservare uomini e non cammelli e collezionare chilometri: ogni chilometro non vale meno di un anno di vita.