sabato 25 aprile 2015

Ogni caduto somiglia a chi resta

“M'accorgo adesso che in tutto quest’anno, e anche prima, anche ai tempi delle magre follie, dell’Anna Maria, di Gallo, di Cate, quand’eravamo ancora giovani e la guerra una nube lontana, mi accorgo che ho vissuto un solo lungo isolamento, una futile vacanza, come un ragazzo che giocando a nascondersi entra dentro un cespuglio e ci sta bene, guarda il cielo da sotto le foglie, e si dimentica di uscire mai più.
È qui che la guerra mi ha preso, e mi prende ogni giorno.
Se passeggio nei boschi, se a ogni sospetto di rastrellati mi rifugio nelle forre, se a volte discuto coi partigiani di passaggio (anche Giorgi c’è stato, coi suoi: drizzava il capo e mi diceva: “Avremo tempo le sere di neve a riparlarne”), non è che non veda come la guerra non è un gioco, questa guerra che è giunta fin qui, che prende alla gola anche il nostro passato. Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri, torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce - si tocca con gli occhi - che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe stata differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.
Ci sono giorni in questa nuda campagna che camminando ho un soprassalto: un tronco secco, un nodo d’erba, una schiena di roccia, mi paiono corpi distesi. Può sempre succedere. Rimpiango che Belbo sia rimasto a Torino. Parte del giorno la passo in cucina, nell’enorme cucina dal battuto di terra, dove mia madre, mia sorella, le donne di casa, preparano conserve. Mio padre va e viene in cantina, col passo del vecchio Gregorio. A volte penso se una rappresaglia, un capriccio, un destino folgorasse la casa e ne facesse quattro muri diroccati e anneriti. A molta gente è già toccato. Che farebbero mio padre, che cosa direbbero le donne? Il loro tono è “La smettessero un po’”, e per loro la guerriglia, tutta quanta questa guerra, sono risse di ragazzi, di quelle che seguivano un tempo alla feste del santo patrono. Se i partigiani requisiscono farina o bestiame, mio padre dice: - Non è giusto. Non hanno il diritto. La chiedano piuttosto in regalo. - Chi ha il diritto? - gli faccio. - Lascia che tutto sia finito e si vedrà, - dice lui.
Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è la guerra,cos’è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: - E dei caduti che facciamo? perché sono morti?
Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno, Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, soltanto per loro la guerra è finita davvero.” 

(Cesare Pavese - La casa in collina)

Ai nostri morti, che ci hanno regalato la libertà (se solo sapessimo farne sempre buon uso!)
#25Aprile

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